Il trattamento del fondo TFR nel calcolo del CCN


Articolo / a cura dell'Ufficio Studi di inFinance

Il trattamento del fondo TFR nel calcolo del CCN

In questo articolo affrontiamo “l’annoso” tema del trattamento del fondo TFR nella riclassificazione del bilancio.

Di cosa si tratta?

L’acronimo indica il fondo di accantonamento del trattamento di fine rapporto, ovvero la voce contabile che identifica il debito che l’impresa ha accumulato verso i dipendenti in relazione alle quote di TFR maturate di anno in anno.

In altre parole, il trattamento di fine rapporto è la prestazione (per i più nota anche come “liquidazione”) a cui ha diritto il lavoratore in caso di cessazione del rapporto lavorativo. 

Il dritto al TFR viene disciplinato dall’art. 2120 del Codice civile che prevede appunto: “In ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5”.

Trattandosi di un fondo è pacifico che la voce in questione sia iscritta nello Stato Patrimoniale e precisamente alla voce ad esso specificamente dedicata C) “Trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato” del passivo civilistico.

Beh, fino a qui nulla di strano direte voi…

In realtà, come ben sappiamo, la disciplina in merito alla redazione del bilancio (art. 2423 cc) è tutt’altro che banale. La quota relativa al TFR maturato nel corso dell’esercizio viene invece esposta nel prospetto di Conto Economico e precisamente nella sezione B9 c), tra i “Costi della produzione”.

Perché il TFR viene iscritto due volte? Si tratta di un debito o, piuttosto, di un costo?

Scopriremo che la risposta al quesito è semplice sebbene non immediata. 

Per l’impresa, infatti, il debito per TFR che si accumula nel fondo è figlio di accantonamenti annui. La quota annua di TFR rappresenta anzitutto un costo di competenza del periodo nel corso del quale il dipendente ha intrattenuto il rapporto di lavoro subordinato, indipendentemente dal fatto che il TFR venga liquidato o meno al termine di ogni esercizio. Ove il TFR non venga effettivamente liquidato si genera come contropartita dell’accantonamento un incremento del debito nei confronti del lavoratore dipendente, che, come già anticipato in precedenza, si cumula anno con anno incrementando via via il fondo TFR.

Bene, ora che abbiamo capito che il TFR viene contabilizzato sia nei debiti che nei costi di matrice operativa (fa parte del costo annuo del lavoro e quindi costo operativo per definizione) è prassi “comune”, durante il processo di riclassificazione del bilancio, ricomprendere:

  • Il fondo TFR nel capitale circolante netto (c.d. Working capital) dello Stato Patrimoniale riclassificato;
  • La quota TFR nei costi operativi del Conto Economico riclassificato.

Facciamo, però, un passo indietro per meglio capire di cosa stiamo parlando.

Cosa si intende con il termine capitale circolante?

>> Attenzione a non confonderlo con l’attivo circolante! I due, infatti, sono concetti ben diversi. <<

Il capitale circolante, in inglese working capital, rappresenta la somma delle risorse necessarie per sostenere l’attività operativa della nostra impresa (guarda il focus webinar).

Esso è calcolato come la differenza esistente tra le poste di natura attiva connesse a operazioni di gestione e le voci di natura passiva relative al sostentamento del ciclo corrente; il termine “circolante” richiama il fatto che le voci considerate fanno riferimento ad attività “a rotazione”, a differenza delle immobilizzazioni, il cui uso è durevole e sono, perciò, destinate a restare attive nel corso del tempo.

L’attivo circolante, invece, comprende solamente gli impieghi correnti.

Ecco che nel passivo corrente ritroviamo proprio il “Fondo TFR”.

Ed eccoci all’annosa questione...

Se da un lato è indiscusso che la quota annua di costo per l’accantonamento TFR sia una posta operativa dall’altro è corretto ricomprendere il passivo denominato Fondo TFR nel calcolo del capitale circolante? A parere di chi scrive assolutamente sì.  

Tale classificazione è figlia del rispetto del principio di pertinenza gestionale, ovvero quel criterio di riclassificazione dello Stato Patrimoniale e del Conto Economico che ha l’obiettivo di raggruppare le voci di bilancio in base alla loro destinazione o funzione gestionale a prescindere dalla durata della medesima. Se l’accantonamento annuo è un costo operativo allora anche il debito che ne scaturisce è di natura operativa e non finanziaria.

L’inclusione del TFR nel circolante è, tuttavia, dibattuta.

Tradizionalmente il TFR viene compreso nel calcolo, a riduzione del capitale circolante, in quanto trattasi di un debito di importo determinabile, derivante da costi di natura operativa, ovvero quelli legati al personale. Considerare tale voce nel calcolo del circolante fornisce una “fotografia” completa della liquidità aziendale. 

C’è anche chi, al contrario, sostiene l’esclusione dello stesso dal calcolo del circolante poiché andrebbe letto in chiave finanziaria come debito da assommare al calcolo della posizione finanziaria netta.

L’inclusione del TFR nel calcolo del capitale circolante, inoltre secondo i sostenitori di tale tesi, potrebbe andare a migliorare “artatamente” gli indici di liquidità, impedendo, così, una rappresentazione fedele della capacità di far fronte a obbligazioni a breve termine da parte dell’impresa stessa. 

Quindi, come muoversi?

Specifichiamo che nemmeno l’ESMA  nelle linee guida sul calcolo della posizione finanziaria netta si è espressa sul trattamento del fondo TFR in quanto prerogativa prettamente italiana: la maggior parte delle imprese versa direttamente tale spettanza a fondi pensione esterni eliminando alla radice il tema del debito e quindi del suo trattamento.

In Italia, altresì, una complessiva revisione della normativa sulla previdenza complementare in vigore dal 1° gennaio 2007, ha visto la creazione dell’obbligo di versamento diretto a fondi pensione dell’accantonamento annuo per TFR ove il lavoratore ne faccia richiesta o nulla specifichi.

Il debito accumulato per TFR altresì non genera interessi da versarsi annualmente ma piuttosto l’obbligo di un adeguamento ISTAT annuo (rivalutato annualmente ad un tasso composto, costituito dall'1.5% in misura fissa annua e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo accertato dall'ISTAT rispetto al dicembre dell'anno precedente) che va ad incrementare direttamente il debito verso i lavoratori.

Un debito finanziario per essere tale deve presentare almeno due caratteristiche: 

  • L’oggetto del contratto deve essere il denaro o divenirlo per “forzature” (ci spiegheremo a breve).
  • Il denaro deve generare un costo finanziario per interessi liquidi ed esigibili.

Esaminiamo il debito per TFR sotto tali lenti.

È evidente che l’oggetto del contratto non è il prestito di denaro bensì la prestazione di lavoro. Né si può affermare che il denaro sia divenuto l’oggetto del contratto per forzature come lo “strappare” dilazioni a fornitori e fisco, ad esempio, dilatando oltre i termini ordinari i pagamenti a tali creditori. Il fondo TFR è tale sino a che dura il rapporto di lavoro. 

Quanto al costo per interessi quando si parla di Fondo TFR è esattamente il contrario; è l’accantonamento a generare il debito e non il debito a generare l’accantonamento. Se poi si parla dell’adeguamento Istat annuo esso genera un costo (sempre operativo e non finanziario) ma non liquido ed esigibile ma semplicemente da assommare al Fondo TFR complessivo.

Se ci pensiamo, conteggiare tale debito nella PFN andrebbe ad inquinare indicatori coma PFN/EBITDA o DEBITO/EQUITY che porterebbero a considerazioni sulla sostenibilità del debito e a conteggi finanziari del tutto errati.

Nel caso di PFN/EBITDA emergerebbe come il debito per TFR (che ha già decurtato l’EBITDA per la quota annua di accantonamento) sia da pagarsi di nuovo con l’EBITDA nel massimo di 4 o 5 anni (limiti dell’indicatore previsti nel mondo del credito). Inoltre, assisteremmo al paradosso che nel calcolo del WACC il rapporto DEBITO/(DEBITO+EQUITY) (nonché EQUITY//(DEBITO+EQUITY)) venga inquinato dal fondo TFR portando al grossolano errore di considerare il tasso del costo del debito ed il suo scudo fiscale anche su un fattore di ponderazione gonfiato dal debito per TFR.

Conclusioni

In conclusione, seppur nel mondo dei fondi pensione e della previdenza complementare che auspicabilmente vedranno scemare in futuri i debiti per TFR nei bilanci aziendali, chi scrive è persuaso che per i motivi sopra rappresentati prevalga la natura operativa del debito per il fondo di trattamento di fine rapporto (discorso analogo per il fondo TFM ovvero il trattamento di fine mandato degli amministratori) che venga quindi conteggiato nel passivo corrente a decurtazione dell’attivo corrente nel calcolo del capitale circolante.

Autore: Ufficio studi inFinance

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